Sono passate solo poche settimane dall’efferato stupro di gruppo di Rimini – che per molti giorni ha animato il dibattito sui media e sui social network -, ma complici nuovi casi di cronaca, la tematica continua a tenere banco. Nella giornata di giovedì 7 settembre, due studentesse americane, residenti a Firenze, hanno denunciato due carabinieri per violenza sessuale. Stando alle accuse, dopo aver trascorso la serata in un locale, le due studentesse avrebbero incrociato i due carabinieri in servizio, i quali si sarebbero offerti di dar loro un passaggio a casa. Una volta giunti a casa delle due ragazze americane, i carabinieri sarebbero entrati nel palazzo e le avrebbero violentate nell’androne, sulle scale. Al momento gli inquirenti hanno iscritto sul registro degli indagati i due militari dell’Arma e starebbero eseguendo tutti gli accertamenti del caso.
Stando alle prime risultanze delle indagini, sembra che le due studentesse siano realmente state accompagnate a casa con la gazzella e dagli accertamenti sanitari eseguiti a distanza di poche ore dai fatti sarebbero stati rinvenuti segni di rapporti sessuali recenti, anche se al momento non è ancora possibile ricondurre le evidenze ai due carabinieri indagati. Le due ragazze, inoltre, sono risultate positive all’alcoltest e alla cannabis, circostanza che non solleverebbe i due militari dalle accuse, ma anzi potenzialmente ne aggraverebbe ulteriormente la posizione.
Premessa la ricostruzione della vicenda, sono in realtà le reazioni dei commentatori alla notizia a colpire. Rispetto all’efferato caso di Rimini, dove nessuno provò nemmeno a pensare di mettere in dubbio la versione resa dalle vittime e venne dimostrata istantaneamente solidarietà sia alla turista polacca, che alla transessuale peruviana stuprate, che al ragazzo polacco brutalmente picchiato dalla banda, in questo specifico caso di Firenze si sprecano i distinguo. Da un lato i giornalisti ricostruiscono la vicenda usando abbondanti condizionali e ribadendo ogni tre righe circa che quella ricostruita è la mera versione delle due studentesse americane, calcando soprattutto la mano sulle presunte numerose incongruenze e ombre presenti nelle testimonianze. Dall’altro lato, la maggior parte dei commentatori mette in dubbio la ricostruzione dello stupro, invoca la presunzione di innocenza per i due militari, sottolinea che gli eventi potrebbero essere stati provocati dalle due ragazze ubriache e “fumate”.
Quello di Firenze non è certo l’unico caso di stupro in cui si è preferito dimostrare questa sorta di cameratesca solidarietà nei confronti dei presunti carnefici, di casi e reazioni simili, se non identiche, ce ne sono un’infinità. Dalla storia dello stupro di Parma, passando per quello di Pimonte e di Marechiaro, anche in quel caso le vittime vennero massacrate da compaesani e commentatori, bollate come infami per il solo fatto di aver avuto il coraggio di raccontare e denunciare. O come nel caso dello stupro di gruppo ai danni di una tredicenne di Melito Porto Salvo, violentata dal branco per tre lunghi anni, che venne allontanata ed emarginata dai concittadini, che presero le parti dei carnefici.
La sensazione è che, in fin dei conti, del reato in sé, dello stupro e delle vittime freghi nulla a nessuno. Non è la violenza a indignare, quanto più la nazionalità di chi commette quel reato. Non una parola di solidarietà per le presunte vittime, moltissimi invece sono i commentatori che esprimono solidarietà ai due militari dell’Arma. Ben inteso, l’invocare la presunzione di innocenza è un atteggiamento giusto e sacrosanto e le accuse vanno provato, senza ombra di dubbio. Non si può accusare né vessare nessuno in assenza di ricostruzioni probatorie e prove certe. Quel che però colpisce è che questo attaccamento alla presunzione di innocenza venga fuori solamente nel momento in cui i presunti stupratori sono militari o comunque persone di nazionalità italiana e che in quel caso, irrimediabilmente, le presunte vittime passino istantaneamente dalla parte del torto, quella del “se la saranno cercata”, del “l’accusa sarà falsa”, quella del “chissà come andavano in giro vestito”. Da vittime a sgualdrine, senza appello. Il sacrosanto principio della presunzione di innocenza che si applica nei confronti dei presunti carnefici sembra non essere di diritto applicato anche alle ragazze, che diventano dunque loro stesse colpevoli. Colpevoli di essersi messe nei guai.