Per tanti versi, le presidenziali americane del 2020 stanno scrivendo un capitolo della storia mondiale, forse molto più fondamentale di quanto possiamo anche solo immaginare. No, non mi riferisco al risultato elettorale, la questione fondamentale che stanno delineando ha in realtà solo marginalmente a che fare con chi sarà il 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Mi riferisco all’impatto che queste elezioni hanno avuto e avranno in futuro sul rapporto tra media e politica.
Nella notte tra il 5 e il 6 novembre 2020, mentre in alcuni Stati chiave era ancora in corso lo spoglio per assegnare la vittoria e i grandi elettori necessari all’elezione a Potus, l’attuale presidente Donald Trump ha deciso di convocare una sorta di conferenza stampa per dichiarare, dalla Casa Bianca, che i democratici stavano “cercando rubare il risultato delle elezioni”, che contando i soli “voti legali” avrebbe già vinto e descrivendo una sorta di complotto dei poteri forti contro di lui, un’ondata di corruzione e frodi elettorali messa in piedi al solo e unico scopo di togliere di mezzo l’unico vero presidente designato dalla volontà popolare.
Da massimo rappresentante delle istutizioni statunitensi, Donald Trump ha di fatto diffuso a reti unificate strampalate teorie su brogli e frodi elettorali senza avere alcuna prova. In diretta televisiva, pressoché planetaria, il presidente degli Stati Uniti d’America ha deliberatamente picconato le basi di ogni democrazia liberale con un discorso eversivo e privo di qualsivoglia riscontro e filo logico. Ed ecco, nella notte tra il 5 e il 6 novembre in Usa è successo qualcosa di letteralmente fuori dall’ordinario: Msnbc, Nbc News e Abc News hanno interrotto il discorso di Trump e sbugiardato il presidente degli Stati Uniti spiegando ai telespettatori che quel che stava andando in onda di fatto era un discorso basato su illazioni prive di fondamento. “Ci troviamo ancora nella posizione inusuale non solo di interrompere il presidente degli Stati Uniti ma di correggere il presidente degli Stati Uniti, non ci sono voti illegali o una vittoria di cui siamo a conoscenza”, ha dichiarato il conduttore di Msnbc, ad esempio, mentre Cnn ha trasmesso tutto l’intervento di Trump accompagnandolo con un chiaro ed eloquente sottopancia che specificava che ciò che stava dichiarando il Potus era privo di prove a sostegno.
Nella notte tra il 5 e il 6 novembre, i media statunitensi – televisivi e non – hanno di fatto tolto il megafono dalle mani di Donald Trump e immediatamente spiegato a lettori e telespettatori che cosa stava succedendo, criticato l’approccio della massima carica del Paese ed evitato di dare rilevanza alle parole del presidente senza contesto. Addirittura Fox News, rete conservatrice per eccellenza e da sempre sostenitrice della presidenza Trump, ha debunkato il diretta il presidente degli Stati Uniti d’America, non senza qualche imbarazzo. L’atteggiamento dei giornalisti statunitensi ha sorpreso soprattutto i colleghi italiani e ha aperto una fondamentale discussione sull’importanza del giornalismo nel ruolo di controllore del potere e difensore dei valori democratici.
Tralasciando gli strali dei trumpiani duri e puri, che non fanno testo, la discussione che si è aperta è molto interessante: è censura quella che i media americani hanno applicato a Trump o era loro dovere farlo? Zittire e togliere il megafono a un politico o a un capo di Stato è quel che ci si aspetta da un giornalista quando quel politico o capo di Stato sta mentendo, oppure questo approccio può costituire una deriva pericolosa e una compressione della libertà di pensiero e di opinione, nonché del diritto all’informazione per i cittadini? La questione non è affatto banale, anzi.
Ma xhe cos’è il giornalismo? A cosa serve il giornalismo? Rispondere a questa domanda, per me, non è per nulla semplice. Non esiste definizione da manuale che possa spiegare l’importanza della funzione sociale del giornalismo, ma esistono numerose citazioni che possono descriverla appieno. Quella che mi è più cara appartiene a Joseph Pulitzer, che credo non abbia bisogno di presentazioni:
«Una stampa capace, disinteressata, rivolta al pubblico, addestrata con intelligenza a riconoscere il giusto e avere il coraggio di perseguirlo, può preservare quelle virtù popolari senza le quali ogni governo è una farsa, una presa in giro. Una stampa cinica, mercenaria e demagogica, invece, produrrà nel tempo un pubblico alla sua altezza».
Banalmente, per me, il senso del giornalismo come cane da guardia del potere è racchiuso in questa citazione di poche righe: riconoscere il giusto e avere il coraggio di perseguirlo. Riconoscere il giusto, ovvero selezionare le notizie, approfondirle e verificarle diffondendo al pubblico un’informazione il più accurata possibile. Questo è il dovere deontologico di ogni giornalista, che deve essere libero da secondi fini e imparziale, dove imparziale significa che non può mistificare i fatti per restituire al lettore una notizia viziata da informazioni false o manipolate frutto di partigianeria.
Quel che il giornalista deve fare è evitare di diventare il megafono della demagogia, che nulla ha a che fare con la democrazia, come invece qualche illuminato intellettuale italiano dei nostri tempi sostiene pur sapendo benissimo che la demagogia, in realtà, altro non è che una vera e propria degenerazione della democrazia, fondata sulla propaganda, dove il vero e il falso non esistono e i fatti non hanno rilievo, un mondo in cui si liscia il pelo a chi con la menzogna vuole mantenere il potere o conquistarlo senza nobili fini, quegli individui che Aristotele definiva “adulatori del popolo”.
La demagogia, in realtà, è l’antitesi del volere popolare. La demagogia altro non è che uno strisciante artificio utilizzato per conquistare il consenso delle masse circuendole, per costruire un mondo dove fatti e menzogne vengono messe sullo stesso piano, dove verità e bugie sono la stessa cosa, hanno lo stesso peso, vengono chiamate “opinioni” e sono lo strumento perfetto per la circuizione di quel popolo che a parole vorrebbe difendere. Ma le illazioni senza prove o, peggio ancora, basate su manipolazioni, non sono opinioni, sono bugie. Un fatto è vero se provato, una teoria cospirazionista è un’illazione senza fondamento, non un’opinione. La distinzione esiste ed è ben chiara.
Non so se Pirandello sarebbe contento di vedere questo mondo moderno dove il relativismo assoluto sta trionfando, un mondo dove il vero e il falso non si distingono più, anche e soprattutto per colpa di un giornalismo che ha perso il lume della ragione e che ha contribuito a ergere la demagogia e l’assenza assoluta di verità e fatti a baluardi di una finta libertà di espressione e di informazione che in realtà costituiscono la negazione stessa della libertà dell’individuo ad essere informato correttamente.
Ci sono tanti modi di fare pessimo giornalismo, partendo dalla vecchia insana abitudine di sbattere il pagina qualsiasi notizia succulenta senza verificarla. E questa deriva, dall’avvento dei social, è purtroppo ben chiara e sempre più pervasiva. Il titolo choc fa click, approfondendo probabilmente la notizia si sgonfierebbe, riportarla correttamente e sobriamente non porterebbe più le persone a cliccarla e diffonderla. Ma di giornalismo ai tempi dei social in questo pezzo non voglio parlare, l’argomento merita un articolo approfondito a parte, insieme all’importanza di quello che gli anglossassoni chiamano fact-checking e che gli italiani considerano una rottura di coglioni.
Quel che mi interessa approfondire è il lato più tossico dell’intero panorama giornalistico italiano: quello politico. Di episodi in cui il giornalismo politico italiano ha mostrato di aver abdicato di fatto alla propria funzione sociale ce ne sarebbero moltissimi. Non ne citerò nemmeno uno e non farò alcun nome. Perché sono troppi. Ci sono due tipi di giornalisti politici: i megafoni e quelli che fanno domande. I primi, ahimé, sono molto più numerosi e non hanno ben chiari né la funzione sociale del mestiere né, tantomeno, i principi deontologici che ogni giornalista è tenuto a rispettare.
Un giornalista abdica alla propria funzione ogni volta che intervista un politico a lui simpatico per permettergli di tenere un comizio dalle colonne di un giornale o da un salotto televisivo senza mai fare “la seconda domanda”, quella che andrebbe fatta per approfondire le affermazioni di chi pretende di diffondere le proprie verità dicendo menzogne o mezze verità, manipolando dati e fatti. Per fare la seconda domanda, bisogna essere preparati, bisogna conoscere bene gli argomenti che si stanno affrontando, bisogna soprattutto avere la voglia di fare un mestiere ben diverso dal reggimicrofono, essere imparziali e non avere secondi fini. Un giornalista abdica alla propria funzione ogni volta che diffonde la dichiarazione di un politico copia-incollandone il pensiero solo perché quel politico l’ha pronunciata, senza curarsi di verificare se quell’affermazione è vera e o falsa, se i dati snocciolati esistono o sono inventati. Perché il vero e il falso esistono, i fatti e le opinioni sono cose diverse e manipolazioni e bugie non sono considerate informazione in nessun Paese civile.
Se un politico dichiara che 2 + 2 fa 5, è dovere del giornalista farlo notare, spiegare che quell’affermazione è falsa e perché. Perché che 2 + 2 faccia 4 è un fatto, non un’opinione politica. Concetto lapalissiano, ma a quanto pare c’è chi sostiene sia un’intollerabile ingerenza nella libera manifestazione del pensiero politico, scambiando la libertà di espressione per un inesistente diritto a manipolare e disinformare i cittadini.
Il giornalista non può e non deve essere il portavoce del politico che intervista, non è quello il suo mestiere. Se lo fa, il suo padrone non è più il lettore, ma il politico di cui diventa cane da riporto. E proprio per questo motivo il media statunitensi hanno fatto più che bene a interrompere e debunkare il discorso eversivo che il presidente degli Stati Uniti d’America stava tenendo dalla Casa Bianca, diffondendo illazioni e teorie cospirazioniste senza alcuna prova a sostegno, sobillando la rabbia di chi potrebbe credere a quelle parole. Il pericolo per il giornalismo moderno nelle democrazie liberali non è la censura, ma è continuare ad abdicare alla propria funzione lasciando spazio a demagoghi che considerano disinformazione e manipolazione espressione di intangibili e inalienabili libertà dell’individuo e non una grave compressione delle stesse. Ed è proprio questo meccanismo che sta minando le basi della democrazia liberale e distruggendo il diritto alla libertà di informazione degli individui, aprendo la via al totalitarismo dell’idiozia e non solo.
Charlotte
Articolo da incorniciare.
Grazie