Da un paio di giorni sui social sta tenendo banco una polemica piuttosto interessante e decisamente adatta a descrivere lo stato del giornalismo dei nostri tempi e, soprattutto, i suoi annosi problemi. Riassumo brevemente: lo scorso 25 novembre l’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha accusato Mattia Feltri, direttore di Huffington Post Italia, di averle rifutato un post dedicato alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, proposto per il blog che l’onorevole cura da qualche tempo sulla testata.
Il motivo della “censura”? Molto semplice: nel post, l’onorevole Boldrini criticava la linea editoriale misogina e sessista di Libero e prendeva ad esempio un recente editoriale di Vittorio Feltri sul caso Genovese. Vittorio Feltri, padre di Mattia Feltri, direttore di Huffington Post Italia. “Confermo quanto scritto oggi dall’onorevole Boldrini su Facebook: ieri ha mandato uno scritto per HuffPost che conteneva un apprezzamento spiacevole su mio padre Vittorio. Ritengo sia libera di pensare e di scrivere su mio padre quello che vuole, ovunque, persino in Parlamento, luogo pubblico per eccellenza, tranne che sul giornale che dirigo. L’ho chiamata e le ho chiesto la cortesia di omettere il riferimento. Al suo rifiuto e alla sua minaccia, qualora il pezzo fosse stato ritirato, di renderne pubbliche le ragioni, a maggior ragione ho deciso di non pubblicarlo”, ha motivato Mattia Feltri in un brevissimo pezzo pubblicato qualche ora dopo.
Che cosa aveva scritto di così spiacevole l’onorevole Boldrini su Vittorio Feltri nel post della discordia, pubblicato integralmente da Il Manifesto il giorno successivo? Ecco: “Si chiama victim blaming. Ed è parte, grande, del problema, rispetto a cui il ruolo dell’informazione è centrale. E mi riferisco polemicamente a quei giornali che fanno di misoginia e sessismo la propria cifra. Cosa dire del resto dell’intervento di Feltri su Libero, in cui si attribuiva la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese ma alla ragazza diciottenne vittima?”.
Una critica al modo di fare informazione di Libero Quotidiano e di Vittorio Feltri, non c’è dubbio. Ma di spiacevole, francamente, c’è ben poco. Ma non è questo il punto. Il punto non è capire se Laura Boldrini abbia ragione. E’ una questione del tutto ininfluente rispetto al dibattito e all’ondata di difesa corporativa a cui la vicenda ha dato la stura, tra rimpalli di accuse e centinaia di tweet a supporto dell’una o dell’altra fazione.
Per come la vedo io, la censura in questo caso c’entra ben poco. Da sempre ritengo non esista per nessuno il diritto a usufruire di un megafono mediatico e trovo legittimo il fatto che un direttore scelga quali contenuti pubblicare sul suo giornale. E’ il suo lavoro, dopotutto. E non trovo nemmeno strano che un figlio scelga di proteggere o difendere il padre. Manco per niente. Quel che però ritengo abbastanza sui generis sono la motivazione addotta da Mattia Feltri per rifiutare il post di Laura Boldrini e, in secondo luogo, la lunga spiegazione che lo stesso Feltri ha reso questa mattina nel tentativo di smorzare la polemica e di spiegare come funziona il giornalismo. Ecco, il grosso problema di tutta questa vicenda è la visione distorta che abbiamo del giornalismo, in Italia. Del ruolo del giornalismo. Della funzione del giornalismo. Di un giornalismo che da troppo tempo e troppo spesso vediamo come uno strumento per affermare visioni che prescindono dai fatti e dai canoni della corretta informazione.
Cercherò di spiegare che cosa intendo servendomi del secondo editoriale di Mattia Feltri, pubblicato questa mattina. Feltri scrive: “HuffPost e io ci siamo imbattuti in una quantità di giudici instancabili, spesso sommamente severi, la maggior parte sprovvisti dei titoli e delle conoscenze necessarie – della professione e del caso – per emettere giudizio, penso sia mio dovere tornare, per l’ultima volta, sulla questione dell’onorevole Boldrini”.
Insomma, l’articolo di Feltri inizia con una fallacia logica: il giornalismo può essere criticato da chi ha titoli e conoscenze necessarie per criticare. Tradotto: i giornalisti. Tendenzialmente è un concetto che ritengo corretto, agli esperti la facoltà di criticare nel merito e nel metodo le questioni che conoscono. Ma il giornalismo è, ancor prima di una professione, un patrimonio della Democrazia che ha la funzione di informare i lettori, i cittadini. Insomma, quel che leggo tra le righe di questa dichiarazione è un argumentum ab auctoritate di difesa corporativa. Difesa corporativa che, vorrei sottolineare, si sta scagliando contro Laura Boldrini da giorni per mezzo dei tweet e dei post di famose firme del giornalismo italiano. Perché se è vero che Mattia Feltri – e non HuffPost – è stato pesantemente criticato per aver scelto di non pubblicare un post su un blog perché contenente un riferimento al padre Vittorio, di certo Laura Boldrini non è passata indenne dalle forche caudine delle firme italiane tutte strette intorno a Mattia Feltri.
Proseguiamo: “Lo faccio perché ero convinto che la mia succinta risposta all’onorevole Boldrini dell’altro giorno fosse sufficiente per respingere attacchi e accuse surreali. Evidentemente non era così”.
In questo passaggio emerge invece supponenza. La supponenza di chi, avendo già dato una succinta risposta, è costretto a tornare sull’argomento perché la polemica social non si placa. La polemica social, però, non è alimentata da Laura Boldrini, ma da chi ha trovato la risposta di Mattia Feltri inadeguata e assolutamente marginale rispetto al dibattito che è sorto intorno alla questione: è giusto che un giornalista rifiuti un articolo o un post su un blog perché contiene un riferimento al padre e alla linea editoriale del giornale che dirige? Padre che, sarebbe da sottolineare, non è esattamente il signor Nessuno, ma un famoso giornalista e direttore di quotidiani – per quanto non più iscritto all’Ordine dei Giornalisti – costantemente al centro del dibattito mediatico. Da decenni.
“Non nego, non ho mai negato, che questa volta intervengono questioni personali, del rapporto fra mio padre e me. Mi sono dato una regola: non parlo in pubblico di mio padre, da vent’anni, direi, perché qualsiasi cosa dica – nel bene e nel male – sarebbe usata contro di me. Qualche volta vorrei difenderlo, qualche volta vorrei criticarlo, ma come si vede in queste ore non c’è serenità d’animo per accogliere le mie parole per quelle che sono: il mio pensiero. Non ne parlo e non voglio che se ne parli sul giornale che dirigo”.
Punto interessante, il punto di tutta la questione: nessuno mette in dubbio che un direttore possa scegliere di non parlare del padre sul giornale che dirige. Ma la domanda focale rimane inevasa: se in qualità di figlio la decisione è più che naturale, quanto può essere considerata superpartes a livello giornalistico? Dopotutto, Laura Boldrini aveva scelto di citare Feltri senior nel post per una motivazione plausibile, ovvero il fatto che un editoriale di Vittorio Feltri solo pochi giorni prima aveva scatenato un’autentica bagarre sui social media (e non solo). Da giornalista, è legittimo decidere di oscurare o ignorare qualsiasi notizia o polemica riguardi il proprio non mediaticamente ininfluente padre? Insomma, la risposta per me è no, se non consideriamo il giornale che dirigiamo il cortile di casa nostra.
“Quando mi è stato segnalato il riferimento dell’onorevole Boldrini nel suo post, ho deciso di chiamarla e di chiederle la cortesia di ometterlo. Era la prima volta che parlavo con lei in vita mia. Pensavo fosse una telefonata con una persona corretta e ragionevole. Ho sbagliato. Sbaglio molto spesso”.
Forse il passaggio più scorretto di tutto l’articolo, in cui nemmeno troppo velatamente si dà a Laura Boldrini della persona scorretta e irragionevole. Ora, io non ho assistito alla telefonata tra Feltri e Boldrini, ma ho intervistato varie volte l’ex presidente della Camera e sulla sua educazione e correttezza francamente ho pochi dubbi. Come ho ben pochi dubbi sul fatto che io stessa, dovessi mai ricevere una richiesta di omissione del genere, rifiuterei una pubblicazione monca e preferirei dare il pezzo a qualche altro giornale. E mi incazzerei come un bufalo, peraltro.
“Poi torno a quella telefonata, ma prima tocca precisare che, più in generale, su HuffPost non ingaggiamo duelli con altri giornali. Se ci capita, è per ragioni eccezionali, ben meditate e condivise da redazione e direzione. Da che alla direzione ci sono io, non è ancora successo. Di sicuro non deleghiamo la pratica a un blogger, cioè a un ospite: se nel blog di Laura Boldrini il bersaglio fosse stato Luciano Fontana o Maurizio Belpietro, avrei fatto una telefonata molto simile“.
Altro passaggio che sa di corporativismo. Non si parla male dei colleghi e degli scivoloni di altri giornali. Occupandomi di fact-checking e debunking da qualche anno, potrei scrivere qualche centinaio di righe sul perché questa posizione sia assolutamente miope, vedendo ogni giorno il risultato di queste cieche difese di categoria. Ma sorvoliamo, che già sto antipatica a troppa gente.
E arriviamo, finalmente, al punto saliente dell’articolo, al passaggio che io chiamrei “l’antitesi del giornalismo spiegata bene”: “Ma c’è un ulteriore particolare che forse Laura Boldrini ha dimenticato o trascurato, ed è la policy a cui tutti i nostri blogger sono sottoposti. Sulla policy c’è scritto che la redazione e la direzione si riservano di non pubblicare i blog senza dare spiegazione e senza nemmeno avvertire (un paio di settimane fa ho sospeso il blog di Carlo Rienzi del Codacons per una ragione che dettaglierei così: non mi piace). Non ci siamo inventati nulla. Vale sempre e vale ovunque: in trentadue anni che faccio questo mestiere ho visto quotidianamente e più volte al giorno direttori buttare via articoli per mille motivi, di opportunità, di linea politica, di convenienza, di gusto, talvolta le scelte sono illustrate, altre liquidate alzando un sopracciglio, ed è la normalità eterna della stampa. Se nella policy le regole sono esplicitate, è proprio perché chi non pratica i giornali magari non le conosce, e crede di usare una testata come il suo profilo Facebook. Dentro queste regole, i blog di Huff hanno prosperato e costituiscono una comunità ricca, plurale e libera. Ma non licenziosa”.
Ecco, in queste righe, che mi hanno letteralmente fatto sobbalzare dal divano, io leggo la descrizione di un qualcosa che non è “la normalità eterna della stampa” ma, anzi, di quello che ritengo il più grande e annoso problema del giornalismo italiano, e sottolinea italiano: l’idea che un direttore possa buttare via articoli non perché scorretti, diffamatori o, ancor peggio, falsi e tendenziosi, ma per motivi di opportunità e convenienza. Funziona così, nella realtà dei fatti, in Italia? La risposta è sì, dalla notte dei tempi, purtroppo. Questo non significa che sia corretto. Anzi, è esattamente ciò che rende il giornalismo italiano così poco credibile. Io la trovo una posizione raccappriciante, che degrada il giornalismo a un canone che non gli appartiene, quello dell’ipocrisia nel migliore dei casi, della mistificazione nel peggiore. Che un direttore pensi di essere legittimato a censurare – e qui sì il verbo censurare cade proprio a pennello – articoli, opinioni o notizie per questioni di opportunità e convenienza non ha nulla a che fare con il giornalismo. Anzi, è esattamente la morte del giornalismo.